Quasi cinque anni fa, in questo stesso periodo dell’anno, ero in spiaggia in veste di “mamma mucca”. Mio suocero, scherzando, mi aveva addirittura soprannominato Lola, il nome della mucca per antonomasia.
In realtà di latte non ne avevo molto, diciamo quanto bastava a saziare un piccolo “tetta addicted”.
Quindi la mia principale attività giornaliera, oltre ad “allattare a richiesta” (perchè non sono mai stata capace di fare diversamente), era quella di ingurgitare come un’idrovora qualsiasi tipo di liquido o tisana pur di aumentare la produzione di latte. Avrei potuto aprire un mutuo con la farmacia per tutti i soldi spesi in tisane “galattofore”, integratori e pastigliette che potessero aiutarmi.
E così, in un caldo pomeriggio d’estate, seduta al bar della spiaggia, sorseggiavo un intruglio disgustoso alle erbe con pargolo attaccato alle amate tette, con tanto di foulard appoggiato sulle spalle in segno di “discrezione”.
A un certo punto mi arriva come una pugnalata alla schiena: una inconfondibile voce femminile, seduta al tavolino dietro il mio, sentenzia: “ma l’hai vista quella? E’ davvero da esibizionisti allattare in pubblico. Pensa che c’è chi ha il coraggio di farlo anche alla fermata dell’autobus. Che vergogna”.
Non ho avuto il coraggio di voltarmi e guardarla in faccia. Forse perchè mi aveva così ferito che mi sarei messa a piangere, oppure avrei fatto un atto dimostrativo come ad esempio sollevarla insieme al tavolino.
Nel dubbio sono rimasta pietrificata e immobile, cercando il conforto per questa umiliazione subita nello sguardo beato di mio figlio “ciucciante”.
Le sarebbe tra l’altro bastato guardare due ombrelloni più avanti per vedere qualche topless integrale di certo più “gratuito” del mio, visto che poi in realtà le mie tette neanche si vedevano.
Nella mia testa si affastellavano mille pensieri, e a rimbombare era la sua frase “estremo esibizionismo. Che vergogna”.
Mi sono chiesta di che cosa mi dovessi mai vergognare. Mi era forse sfuggito un cartello sulla spiaggia con scritto “vietato entrare alle mamme che allattano?”.
Visto che allattavo a richiesta più o meno ogni mezz’ora, forse sarei dovuta stare in casa a vergognarmi? Sarei dovuta andare nel cesso della spiaggia svenendo per il caldo e la puzza per evitare che un mio lembo di tetta si potesse intravvedere? Che cosa realmente infastidiva questa donna e tutti quelli che come lei trovano riprovevole allattare un bambino in pubblico?
Alla fine ho smesso di farmi domande, e mi sono chiesta soltanto che madre potesse essere mai stata questa donna della quale continuerò a ricordare soltanto la voce. Forse una madre mancata. O una madre troppo severa con se stessa, vittima di pregiudizi infondati.
Questo episodio mi è tornato alla mente dopo aver letto un bellissimo articolo della psicologa Silvia Bonino pubblicato sul numero maggio-giugno della rivista Psicologia Contemporanea. La Bonino riflette sugli ultimi fatti di cronaca italiana che vietano alle madri di allattare in luoghi pubblici, come un ufficio o un museo: “…per quanto le madri avessero scelto un angolo appartato, la reazione dei responsabili è stata brusca e negativa, come se queste donne stessero compiendo un’azione molto deplorevole.“
La Bonino si interroga su quali siano realmente le ragioni che possano spiegare l’avversione per un atto che viene ritenuto indecente, quasi osceno, se non compiuto nell’intimità della propria casa.
E così ce lo spiega: “Le reazioni contrarie alla vista di una donna che allatta sembrano indicare che la nostra cultura attuale non è più in grado di distinguere un inequivocabile gesto materno di accudimento da quello di mostrare il seno ai fini della seduzione. In altri termini, il seno femminile sembra avere perso, agli occhi di molti osservatori sia maschi sia femmine, la sua funzione materna, per aver soltanto quella sessuale.
Di conseguenza la sua esposizione pubblica viene censurata come inopportuna, con reazioni impulsive di rifiuto automatico e viscerale. E’ come se noi occidentali fossimo ormai talmente abituati a guardare al seno femminile in termini esclusivamente sessuali da non riuscire più a vederlo in altro modo, nella sua ovvia funzione di nutrimento per il neonato. Il rifiuto della donna che allatta dovrebbe allora preoccuparci, perché rimanda a una più generale mortificazione della donna, che viene limitata al suo ruolo sessuale.
[…]Rivendicare la possibilità di allattamento non significa soltanto favorire un atto di accudimento dei neonati, significa anche, più in generale, ricordare che le donne non esauriscono la loro identità nella sessualità: possono anche essere madri, e molto altro ancora.”
Ecco, in questi casi, io non ho davvero altro da aggiungere.