Scrivo questo articolo dopo essere rientrata da una serata organizzata dal gruppo Facebook “libri per la mente”, il cui ospite d’onore è stato Umberto Galimberti, noto psicologo e filosofo dalle grandi capacità comunicative.
Sin dai tempi del liceo leggevo la sua rubrica su “Donna”, inserto del quotidiano “La Repubblica”. Mi ricordo che al sabato, la prima cosa che facevo appena rientrata da scuola, era andare a leggere l’ultima pagina, quella contenente le sue riflessioni.
Alcune domande poste dai lettori sulla vita, la morte, la religione e non, trovavano sempre esaustive risposte nelle sue, talvolta lapidarie, dissertazioni filosofiche. Crescendo ho iniziato ad appassionarmi anche ai suoi testi. Avere avuto questa sera la possibilità di conoscerlo dal vivo è stato emozionante.
Lui ama definirsi un “greco”, non perché sia nato in Grecia, sia chiaro, ma perché la sua concezione del mondo e della vita è ispirata alla filosofia greca. Io penso che di “greco” abbia anche quella capacità di incantare e “fascinare” lo spirito di chi lo ascolta.
L’effetto che ti fa un suo discorso è catartico, al pari, probabilmente, di quello che sortiva la tragedia greca nel pubblico.
E così, a distanza di anni, ancora una volta le sue parole mi sono arrivate dritte al cuore e mi hanno fatto riflettere su quella che, a suo dire, è la cosa più importante che un genitore debba fare: guardare i figli.
Secondo Galimberti, i giovani di oggi sono privi di mappe emotive, grazie alle quali possono costruire legami e relazioni. Queste mappe emotive si formano attraverso la cura che i bambini ricevono nei primi tre anni di vita. Il bambino che nei primi tre anni di vita non riceve adeguate attenzioni e non si sente sufficientemente ascoltato si sentirà inesistente, al pari di non valere nulla.
L’identità non è qualcosa di “innato”, ma si forma perché qualcuno ce la riconosce. C’è un’età in cui i bambini iniziano a domandarci il perché di ogni cosa: dovremmo sforzarci il più possibile di saziare questa sete di conoscenza dando loro delle risposte. E se le risposte non le sappiamo, allora varrebbe la pena ricorrere alla fantasia (nostra).
Se non siamo in grado oggi di rispondere a tutte le domande che i nostri figli ci fanno, non potremo lamentarci un domani se, divenuti grandi, non verranno più da noi a parlarci di quanto accade loro.
I nostri figli, sostiene Galimberti, hanno bisogno non tanto di un tempo-qualità, ma di tempo-quantità.
I bambini necessitano che l’adulto li guardi, si sieda accanto a loro anche mentre guardano un cartone in tv e condividano con lui questa esperienza. Hanno bisogno di essere riconosciuti nelle loro piccole conquiste quotidiane, nei loro progressi, nei loro disegni.
La frase che ho sentito più spesso ripetere ai miei figli, dal momento in cui hanno iniziato a parlare ad oggi, non è stato tanto il solo “mamma”, ma “mammaguarda!”. Senza neppure una pausa tra soggetto e verbo.
E in questa frase, alla quale siamo forse anestetizzati perché ce la ripetono ogni istante, è racchiuso invece tutto il loro universo e il bisogno di essere riconosciuti in quello che fanno, che dicono, che pensano, per sentirsi parte di questo mondo.
Ecco che quando mio figlio mi dirà “mamma guarda il mio disegno!”, anche se fosse il quinto di seguito che mi mostra orgoglioso, dovrei cercare di non rispondergli mai con un “adesso non posso, lo vedo dopo”.
Il dare loro attenzione si traduce banalmente anche in questo: concedere quello sguardo attento e non “distratto” che tanto insistentemente ci chiedono. L’attenzione si manifesta mostrando interesse verso le loro scoperte, il sostegno e l’incoraggiamento. La soddisfazione di questa esigenza è il carburante per la loro autostima, rafforzando anche il legame genitore-figlio.
Non si tratta solo di “vedere” ciò che hanno da mostrarci, ma di aiutarli a costruire, giorno dopo giorno, disegno dopo disegno, passo dopo passo, domanda dopo domanda, la loro identità e unicità attraverso il nostro amorevole sguardo.